Il caso “Zorro”: l’uso parodistico dei diritti di proprietà intellettuale

di Francesca La Rocca ed Elisabetta Berti Arnoaldi, partner dello studio Sena & Partners

Con l’Ordinanza n. 38165/2022, dopo quindici anni di contenzioso, la Suprema Corte di Cassazione, qualche settimana fa, si è pronunciata sulla libera utilizzabilità della parodia del personaggio di fantasia Zorro in una comunicazione commerciale (precisamente in uno spot TV e radiofonico) tracciando i confini tra i diritti di proprietà intellettuale (diritto d’autore e marchio) e libertà di espressione.

Francesca La Rocca ed Elisabetta Berti Arnoaldi

Una vicenda legale con motivi di interesse molteplici per chi opera nel mondo dell’advertising: se ne ricava un invito a prestare la massima attenzione nell’impiego di citazioni di elementi oggetto di diritti di proprietà intellettuale altrui e a non confidare nella scriminante della parodia, che non può sempre valere a legittimarne lo sfruttamento economico senza autorizzazione dei relativi titolari.

La questione riguardava l’utilizzo della figura di Zorro, creata nel 1919 dallo scrittore statunitense Johston McCully, da parte di una società italiana produttrice di acque minerali per la campagna televisiva e radiofonica dell’acqua Brio Blu, con l’uso del personaggio di fantasia, ancora protetto dal diritto d’autore, nella pubblicità di un prodotto commerciale.

La società statunitense Zorro Productions Inc., titolare dei diritti sul personaggio Zorro come opera del diritto di autore e dei marchi denominativi e figurativi ad esso relativi, nel 2007, ne aveva lamentato la violazione al Tribunale di Roma.

La società italiana Compagnia Generale Distribuzione s.p.a. si era difesa affermando che l’uso era stato fatto in chiave parodistica e pertanto non determinava violazione né del diritto d’autore, né contraffazione dei marchi e la decisione di primo grado aveva accolto questa tesi. 

Ma in senso opposto, invece, si era pronunciata la Corte di Appello, non condividendo i criteri applicati dai giudici di primo grado. 

La Corte di Cassazione, infine, ha chiuso il cerchio pronunciandosi (per la seconda volta nel medesimo giudizio con una sentenza che merita attenzione per il fatto che affronta la questione della  definizione del concetto di parodia rilevante per il diritto. 

Vi si legge infatti che la parodia è costituita da un “atto umoristico o canzonatorio che si caratterizza per evocare un’opera, o anche un personaggio di fantasia e non richiede un proprio carattere originale, diverso dalla presenza di percettibili differenze rispetto all’opera o al personaggio che sono parodiati”. Con la precisazione che , per essere lecita, la parodia “deve rispettare un giusto equilibrio tra i diritto del soggetto che abbia titolo allo sfruttamento dell’opera, o del personaggio, e la libertà di espressione dell’autore della parodia stessa; in tal senso, la ripresa dei contenuti protetti può giustificarsi nei limiti connaturati al fine parodistico e sempre che la parodia non rechi pregiudizio agli interessi del titolare dell’opera o del personaggio originali, come accade quando entri in concorrenza con l’utilizzazione economica dei medesimi”.

La Cassazione riconosce dunque  che l’eccezione di parodia, seppure non espressamente prevista dalla legge n. 633/1942 (Legge sul diritto d’autore), deve ritenersi compresa nell’art. 70, comma 1, di tale legge, in quanto è intesa come espressione del diritto di critica e discussione dell’opera, sempre purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera.

La questione però, parla anche dell’uso parodistico del marchio.

La Corte di Cassazione, sul punto, ha innanzitutto sottolineato che qualora fosse accertata la  rinomanza del marchio “Zorro”  il suo utilizzo nella  pubblicità dell’acqua minerale di Compagnia Generale Distribuzione s.p.a. nella, in quanto l’uso del segno nell’attività economica, sarebbe indebito.

Ha, infatti, ritenuto  irrilevante che nello spot il personaggio Zorro non bevesse l’acqua pubblicizzata e che il suo nome e l’immagine non risultassero apposti sulle confezioni del prodotto, affermando che “ai fini della contraffazione non è necessario che si faccia un utilizzo del segno per contrassegnare fisicamente il prodotto essendo invece sufficiente che del marchio si faccia un uso di tipo narrativo idoneo ad agganciare i pregi del marchio altrui” con la precisazione che “in tema di marchi d’impresa lo sfruttamento del marchio altrui, se notorio, è da considerarsi vietato ove l’uso del segno senza giusto motivo, posto in essere nell’attività economica, consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o rechi pregiudizio agli stessi, a nulla rilevando che il marchio non sia utilizzato per contraddistinguere i prodotti o i servizi dell’autore dell’uso, come può avvenire nel caso della rappresentazione parodistica del marchio in questione”.