di Maurizio Badiani – Nessuno me lo toglie dalla testa.
Se non esistessero i telefonini, telecamere tascabili pronte a lasciare le loro fondine con la velocità di una Colt, e se non esistesse la “rete”, sempre pronta a diffondere qualsiasi minchiata, vedremmo diminuire in scala esponenziale molte delle bravate (e dei reati) che, in nome di questo o quell'”ideale”, ci vengono propinati ad ogni ora del giorno e della notte.
Spunto per la mia riflessione è l’ultimo atto di vandalismo statuario: l’abbattimento prima e l’annegamento poi del Colombo di Baltimora.
Un gruppo di esuberanti ragazzotti ha pensato bene di festeggiare il giorno dell’Indipendenza legando la candida statua di marmo di Carrara dedicata al Genovese e trascinandola in mare. Il muscolare gesto è stato ripreso prontamente da decine di telefonini e immediatamente dato in pasto a orde di famelici voyeur in ogni parte del mondo.
Visto che gli spiriti erano particolarmente accalorati, se sul piedistallo ci fosse stato Cristoforo Colombo in persona probabilmente sarebbe finito impiccato. In mancanza di quello in carne ed ossa è venuto buono anche quello di marmo.
Vi dirò con franchezza che questa moda di dare la baia al razzista d’antan non mi esalta punto. Anche perché si sa come vanno certe cose. I Nazisti cominciarono con i quadri e con i libri. Poi finirono col bruciare ben altro.
Posso arrivare a capire l’odio di chi, finita una dittatura feroce, se la prende col corpo in effigie del dittatore appena decaduto. Ma prendersela con un disgraziato (perché Colombo ebbe davvero una vita disgraziata) morto da oltre 500 anni, e colpevole solo di aver trovato un ostacolo non previsto sulla propria strada, non mi va giù.
Se con quel gesto la troupe dei tiratori di fune pensava di conquistare alla propria causa qualche anima in più, ha sbagliato bersaglio.
Si è solo inimicata alcuni milioni di italo-americani che in una statua e in un nome trovavano, generazione dopo generazione, un motivo di orgoglio e di identità.
Proprio quei valori che i forzuti di Baltimora dicono, a parole, di voler far valere.