Intervista al sociologo Francesco Pira autore del volume “Figli delle App”

di Andrea Altinier

Un volume che si apre con una citazione di don Giovanni Bosco “Dalla buona o dalla cattiva educazione della gioventù dipende un buon o un triste avvenire della società” che è il segno profondo dell’intento dell’autore di trattare temi attuali e complessi, ma non per trovare dei colpevoli bensì per gettare le fondamenta per un dibattito serio ed autorevole che possa trovare delle soluzioni per il futuro alle numerose contraddizioni sommerse nelle relazione tra i ragazzi che vivono immersi nelle app. Stiamo parlando dell’ultimo saggio del sociologo Francesco Pira “Figli delle App” edito da Franco Angeli, uno sguardo a 360 gradi sul rapporto che i giovanissimi hanno con la tecnologia e con il mondo delle app. La pubblicazione accanto agli aspetti sociologici ed educativi indaga i tratti più vividi del rapporto tra le nuove tecnologie ed i loro utilizzatori, ovvero i ragazzi. Una fotografia reale dalle solide basi scientifiche che ha il merito di mettere sotto i riflettori alcuni degli aspetti più complessi da affrontare come cyberbullismo, sexting, del revenge porn, del cutting per arrivare a chi ha perso la vita per inseguire una challenge. Un libro che parla dei nostri figli, che non sono marziani, ma ragazzi pieni di speranze e di fragilità. Un saggio che mette sotto la luce dei riflettori le contraddizioni delle nuove generazioni e lo fa con un approccio scientifico . Infatti il volume contiene anche una survey realizzata nel periodo aprile – maggio 2020 coinvolgendo in totale 1.858 studenti delle scuole medie superiori e delle medie inferiori. Quello che emerge è un quadro che non sorprende, ma colpisce il 98% dei ragazzi ha uno smartphone, il 68% un profilo falso. Vivono su Instagram e Whatsapp. Il 60% si sente solo. Una generazione costantemente online, ma che nonostante viva in modo totale e totalizzante dentro la comunità social soffre di solitudine. Il sociologo Francesco Pira a pochi giorni dall’arrivo nelle librerie (8 marzo) ne parla con Spot and Web.

Francesco Pira

Prof. Francesco Pira partiamo, però, dal titolo? Da dove nasce l’idea di questo saggio?

“Figli delle app” è il provocatorio titolo che ho scelto, da immigrato digitale e adolescente, quando Alan Sorrenti cantava: Noi siamo figli delle stelle/ Non ci fermeremo mai per niente al mondo/ Per sempre figli delle stelle/ Senza storia senza età, eroi di un sogno… Non sono sicuro che essere figli delle app sia essere eroi di un sogno, purtroppo concordo con il pensiero del grande sociologo Zygmunt Bauman che il consumismo tecnologico rischia di trasformarci in individui senza storia e identità”.

Come potremo definire la generazione che lei ha indagato nella sua ricerca e quali sono gli elementi che emergono dalla loro relazione con le app?

Potremo definirla una Generazione digital popolare, nel senso che è una generazione alla continua ricerca della popolarità e della fama. Preadolescenti e gli adolescenti – questo emerge dal mio lavoro di ricerca – in rete che ormai “vetrinizzano” ogni momento della loro vita. Se da un lato sono sempre in vetrina attraverso i Social Network allo stesso tempo hanno bisogno di essere sostenuti, rassicurati, accettati. Il loro modo di approcciarsi ai social ci mostra la complessità e le contraddizioni della loro vita sociale sulla rete, le loro fragilità emotive e le loro insicurezze. 

Una relazione che pervade il loro quotidiano, ma che influenza anche la loro prospettiva sul futuro?

Non vi è alcun dubbio sono cambiati i riferimenti. I giovani oggi seguono passo dopo passo la vita dei loro idoli sui social network e cercano di assomigliare a loro o emulando i loro comportamenti. Sulla base di questo processo anche la prospettiva della propria realizzazione personale è cambiata, così come il riuscire a prefissarsi nuovi obiettivi e nuovi traguardi da raggiungere. Un tempo le ragazze sognavano di diventare dottoresse, avvocate, maestre o di intraprendere altri mestieri diffusi, oggi sognano di diventare influencer o fashion blogger. 

La rivoluzione tecnologica ha creato un nuovo ambiente di relazione e socialità all’interno del quale vivono i nostri giovani? Quali sono le caratteristiche di questa bolla digitale?

È un fenomeno del tutto nuovo che ha effetti importanti. Lo potremo definire un percorso attraverso generazioni che si sono evolute all’interno di ambienti sempre più tecnologici, spesso da soli, e che oggi sono gli adulti appena diventati genitori, tutti accomunati nell’evidente dicotomia tra connessione e relazione. Un uso della tecnologia che ci mostra come l’intuitività, l’immediatezza siano gli aspetti prevalenti che di fatto sembrano annullare quasi del tutto lo spazio per comprendere il contesto prima di agire. Così, l’azione viene prima della riflessione, che genera una risposta emotiva immediata e mediata dallo schermo. Oggi preadolescenti e adolescenti nascono già immersi nelle tecnologie digitali,  è chiaro che è all’interno di questi contesti che stanno costruendo il proprio universo relazionale, in un ambiente completamente digitalizzato e mediatizzato. Le app di smartphone e tablet rappresentano il percorso all’interno del quale i giovani sperimentano, costruiscono e rappresentano la propria identità.

Un’immersione totale e totalizzante che comporta, però, anche rischi come cyberbullismo, sexting, challenge che portano purtroppo ad episodi drammatici… di fronte a cosa si trova davanti oggi un adolescente (e non) attraverso il complesso mondo dei social?

Siamo passati dall’investigazione di quello che era considerato un fenomeno ad una prassi comportamentale. Anche i dati più recenti ci dicono questo, se oltre il 60% degli adolescenti dichiara di essere vittima di atti di bullismo e cyberbullismo. Lo stesso vale per il sexiting che è diventata prassi anche tra i giovanissimi. Non sono, però, gli unici fenomeni. Nel volume Le challenge che ho avuto modo di analizzare comportano diversi rischi. Voglio ricordare la “Shoe Challenge” che consiste nel provare il maggior numero di scarpe e vestiti in 15 secondi, tutto rigorosamente a tempo di musica. Il rischio pedo-pornografia è altissimo con ragazzine che si svestono senza problemi in nome della sfida. Non si può non menzionare la “Eyeballing Challenge” che consiste nel versarsi la vodka negli occhi. Tra le peggiori troviamo la “Skullbreaker Challenge” letteralmente la sfida a colui che rompe il cranio, anche detta “Tripping Challenge” cioè sfida dello sgambetto. I partecipanti sono tre, allineati in orizzontale e pronti a saltare, ma uno di loro è ignaro della “sfida”. Nel momento in cui la persona salta, gli altri due ai lati gli tendono contemporaneamente uno sgambetto, facendolo cadere e sbattere testa e schiena a terra. Dopodiché le stesse ragazze e ragazzi ci dicono di non sentirsi sicuri online, e in particolare le ragazze temono il revenge porn.

Non possiamo, però, pensare che i più giovani abbiano i filtri per difendersi da quello che accade nei social. E non si può ridurre il problema alla privacy, alla sicurezza ed alla dittatura degli algoritmi. Serve come scrive nel libro un’assunzione di responsabilità da parte di alcuni attori come scuola, educatori genitori…?

Siamo di fronte ad un vera e propria emergenza educativa e valoriale, che investe tutti in primis la famiglia. Genitori che  erano  i bambini per i quali nel 1999 affermavo, dati alla mano ,che non dovessero lasciati soli davanti alla tv, e che sono diventati adulti con quel corredo culturale. Manca la guida, l’autorevolezza di accompagnare la crescita e capire quale impatto hanno le tecnologie sulle vite dei nostri figli. Purtroppo troppo spesso anche negli incontri che svolgo con insegnanti e genitori, rilevo come siano spesso all’oscuro dell’universo in cui si muovono i ragazzi. Non sapevano cosa fosse ieri Ask.fm, non sapevano oggi cosa è Tik Tok. Non sanno che i ragazzi non possono essere iscritti ai social prima dei 13 anni. Non conoscono il regolamento europeo sulla privacy in vigore dal maggio 2019 che pone in essere strumenti per tutelare i minori. 

Il suo saggio ha un grande merito che è quello di poggiare su una ricerca che argomenta i diversi concetti esposti che sono stati amplificati dalla particolare situazione dettata dalla pandemia. Cosa emerge dai risultati della survey online “La mia via ai tempi del Covid?

Due aspetti sono molto preoccupanti ed emergono con forza dai dati della ricerca. Il primo riguarda il senso di solitudine e paura che hanno provato durante i mesi del primo lockdown. E poi la tendenza ad isolarsi rispetto all’ambiente familiare, si ravvisa una sorta di dipendenza dal gruppo, mentre il contesto familiare sembra rivelare crescenti debolezze e fragilità che alimentano le barriere e la mancanza di dialogo. Il secondo dato, eclatante perché è la prima volta che i ragazzi lo dichiarano  durante le indagini, la crescente tendenza a crearsi dei profili social falsi, soprattutto su Instagram, che è il loro social prediletto. In piena pandemia da disinformazione è chiaro che il rischio che la manipolazione e il falso diventino la prassi comportamentale e relazionale è davvero alto.

Viviamo, quindi, in una società che ha visto la rivoluzione tecnologica trasformarsi in una “dittatura tecnologica”?

Si e no. Si nel senso che la tecnologia è parte integrante di tutti i processi che attraversano la società, economici, sociali, culturali, politici. No, perché la rivoluzione tecnologica potrà dirsi compiuta quando non ci saranno barriere di accesso alla tecnologia, il divario invece sembra ampliarsi. Non tutti hanno a disposizione le medesime possibilità di accesso, la barriera economica che costringe ancora fasce dei bambini e ragazzi a seguire le lezioni dallo smartphone perché in casa c’è solo un pc. Il digital divide è un concetto ampio che riguarda anche gli aspetti educativi e culturali senza i quali, si diventa sempre più consumatori di tecnologia come già ci avvertiva Bauman piuttosto che individui capaci di guidare la costruzione della società in rete.

Di fronte a questa società quali le soluzioni? Va rivista la concezione stessa di Media Education?

Credo che serva una nuova interpretazione della Media Education per proporre modelli che educhino all’uso delle nuove tecnologie. Non più una Media Education come educazione ai media, piuttosto come strumento di nuovo approccio strategico alla formazione, affinché i nostri ragazzi comprendano come vivere nel mondo social. E poi le scuole per i genitori. Così come un percorso di educazione ai sentimenti. E questo un tema su cui serve un approfondimento ed un dibattito serio ed autorevole e spero che questo saggio possa essere un contributo non solo scientifico, ma soprattutto uno strumento da cui partire.