Intervista all’Amministratore delegato di Makno, Lorenzo Bernorio: “Benvenuti nell’era della convergenza mediale”
di Giovanni Santaniello
Amministratore delegato Makno, la società che si occupa dal 1979 di ricerche sociali e di mercato. Coordinatore di ConMe, il laboratorio nato dalla partnership tra Makno e Politecnico di Milano. Lorenzo Bernorio, 42 anni, pavese di nascita ma ormai milanese di adozione, sostiene che un’epoca è finita. Quella delle ricerche e dei modelli di comunicazione che si incentrano esclusivamente su un singolo media. Addio agli studi che si interessano esclusivamente di televisione piuttosto che di radio, quindi; di carta stampata piuttosto che di Internet.
Oggi, con la nuova tecnologia a portata di tutti, con gli smartphone a portata di mano nel salotto di casa mentre si guarda la tv piuttosto che in metropolitana, tutto si mischia nella combinazione spazio-tempo-bisogno dell’utente. E una ricerca che ha l’ambizione di proiettare la realtà della quotidianità del 2013 non può, quindi, non essere orizzontale. O meglio: “convergente”, come la Makno del presidente Mario Abis e il Politecnico di Milano, con il gruppo coordinato dal professor Giuliano Noci, hanno proposto agli operatori del mondo della comunicazione e del marketing mettendo sul tavolo un nuovo approccio di ricerca applicato al mondo dei media.
“Oggi – avverte Bernorio – anche quando si calcola lo share di una trasmissione televisiva, ha sempre minor senso contare le singole teste. Bisogna valutare anche altri fattori, come quello del grado di attenzione che l’utente presta alla comunicazione. O quello che indica quanto un singolo contenuto sia capace di proiettare il consumatore sugli altri ambienti mediali”.
Quell’utente, in sempre maggior numero, magari interagisce contemporaneamente con un telefonino o un tablet. Bisogna, quindi, cambiare schema per capire e misurare i comportamenti di chi si approccia al mondo della comunicazione?
“Sì. Proprio per questo Mario Abis e Giuliano Noci hanno dato vita a ConMe, il think tank nato nel 2010 e che dal 2011 è sostenuto e finanziato da un insieme di aziende leader della comunicazione come Rai, Mediaset, Barilla, Eni, Enel, Vodafone, Rcs Mediagroup, Poste Italiane, Gruppo Testa, FedoWeb e Media Italia. Mettere attorno allo stesso tavolo tutti gli attori della filiera, per noi, era fondamentale dato che, con ConMe, volevamo un laboratorio di ricerca strategica creato per analizzare, comprendere e misurare il fenomeno della convergenza mediale. Il nostro obiettivo è monitorare e prevedere l’evoluzione dei comportamenti mediali dei consumatori in relazione all’evoluzione tecnologica, ai cambiamenti sociali e ai contesti di utilizzo. E per fare questo non ha più alcun senso lavorare per compartimenti stagni. Gli individui, infatti, hanno già rotto tutti gli steccati che prima si ergevano tra la televisione e Internet, solo per fare un esempio”.
Lo scenario del 2013 già presenta degli utenti diversi.
“Perché gli utenti già ora passano continuamente da un media all’altro. In maniera libera, autonoma, fluida e mobile. Costruiscono loro stessi il percorso mediale che preferiscono, riempiendo il tempo morto che hanno in metro, piuttosto che la pausa pranzo in ufficio”.
E’ stata la tecnologia come quella dei social network a cambiarci?
“Non solo. Noi crediamo che ci abbiano cambiato non solo i comportamenti mediali, ma la forma stessa della società, che è un inedito assoluto: siamo passati dalla società post-industriale a quella dell’informazione. Da quella del coordinamento a questa, che possiamo definire della convergenza”.
Il Corriere della Sera, scrivendo del vostro ultimo convegno, ha titolato: ‘La nuova pubblicità dura 20 ore al giorno’. Le aziende come si pongono davanti alla sfida del nuovo fruitore di comunicazione?
“Si può dire che si dividono in due gruppi quando si tratta di farsi conoscere. Il primo è costituito ancora da chi ha un atteggiamento prevalentemente conservatore. Il secondo da chi vuole esserci domani”.
La crisi ci mette lo zampino?
“La crisi costringe ad essere più efficienti. A cercare nuovi modelli. Ma finora, per la maggior parte dei casi, si è avanzato per tentativi, senza seguire vere e proprie strategie”.
Qual è la sfida da vincere?
“Quella di mettere in campo una narrazione della propria marca capace di articolarsi su più piattaforme, tenendo conto della differenza di contenuti e del contesto di interazione dell’utente che, come accennato, va dal salotto di casa alla metropolitana. Per la pubblicità, diventa sempre più fondamentale il livello di fruizione e di attenzione. E si dimostra sempre più veritiero l’assunto secondo cui essa non è un semplice messaggio, ma una proposta di interrelazione”.
Questo nuovo mondo a cui deve adattarsi la pubblicità comporta anche una nuova spesa economica?
“Si. Ma che il mondo sia ormai cambiato lo dimostra anche il fatto che già sono due anni che le aziende che investono negli spot del Super Bowl, l’evento sportivo più seguito negli Usa, siano tutte orientate ad un offerta “multischermo”, cioè proiettata contemporaneamente su piattaforme mediali diverse da quella televisiva. Spesse volte, invece, in Italia il tutto si limita a far comparire la semplice scritta ‘seguici su Facebook’ negli ultimi istanti dello spot…”