di Maurizio Badiani
Quando il giovane Mameli (morì a soli 22 anni) scrisse l’Inno che da lui ha preso il nome, mai e poi mai avrebbe pensato che a cantarlo sarebbero stati undici ragazzotti forti di gamba pronti a correre dietro a una palla sulla liscia superficie di un prato.
Il povero Mameli, quando vergò quelle parole, pensava a ben altre, più impegnative contese e, soprattutto, a ben altri campi.
A quell’ inno però ci siamo ormai affezionati e lo cantiamo con la mano sul petto tirando fuori quel poco di orgoglio nazionale che ancora ci resta.
Nessuno, nel cantarlo, pensa al senso delle parole: all’ “elmo di Scipio (chi era costui?)” alla vittoria “che schiava di Roma Iddio la creò”(perché poi?)”.
Quelle parole roboanti, nate in tempi lontani e per altri scopi, suonano bene e quello ci basta.
Certo quando – come è accaduto ieri sera – “Fratelli d’Italia” è cantato non più da 11 maschietti allineati ma solo ed unicamente da 11 “sorelle” un certo stridore si fa sentire.
Ho anche provato, canticchiando, a sostituire “Sorelle d’Italia” agli Italici Fratelli ma la cosa non sta in piedi.
E allora teniamoci quel “Fratelli d’Italia” così com’è anche quando a cantarlo sono delle giovani fanciulle.
Del resto gli “inni” sono pieni di contraddizioni. Anche perché si tratta spesso di “materiali di recupero”.
Prendete “Nessun dorma” che con quel suo VINCERÓ sembra scritto apposta per incitare gli animi davanti ai paddock di Maranello.
Giurerei che chi lo canta non ha mai sentito parlare né del principe Calaf né della crudele Turandot né conosce le ragioni della loro notte insonne.
Ma lo canta. Senza dar troppo peso alle parole. La musica trascinante di Puccini (ma sapranno chi è Puccini?) e quel VINCERÓ finale bastano e avanzano per spingere gli animi a sognare rossi podi ed agognate mete.