Il tempo dei perché 

di Diego Fontana Docente, formatore e Direttore creativo di TERRA

Diego Fontana

Tanti anni fa ero uno stagista copywriter in un’agenzia di pubblicità. Proprio quella in cui desideravo andare. Ero uno stagista bravo. Non è che fossi proprio bravissimo – ero solo bravo – ma ero un entusiasta incosciente e ignorante, e questa era una grandissima arma (inconsapevole) a mio favore: tutto per me era nuovo, e a me piaceva tutto, anche perché non avevo molti metri di paragone. Non conoscevo così bene i progetti e la vita interna delle altre agenzie, quindi non riuscivo a fare confronti. Sapevo solo che quell’agenzia dove stavo era molto ok, perché me ne avevano parlato all’Università del Progetto. E a me piaceva tutto quello che mi chiedevano di fare. Proprio tutto. Un annuncetto per una semplice raccolta punti? Evviva. Un pieghevolino sull’olio d’oliva? Wow. Un spot radiofonico per i bastoncini di pesce? Bello! Mi piaceva tutto, e mi sembrava impossibile poter fare davvero un lavoro in cui mi pagassero per avere idee e per scrivere. 

Odiavo solo una cosa: leggere gli esecutivi da mandare in stampa. A volte me ne trovavo un quintaletto sulla scrivania: cattedrali di fogli stampati con gli impaginati degli annunci fatti dai creativi più senior di me, da spedire alle riviste e ai giornali. Ogni rivista ha formati diversi, quindi io mi trovavo la stessa pagina pubblicitaria da rileggere per due ore, in mille formati diversi, con il compito di verificare che gli impaginatori, adattando il testo a questo o a quel formato, non avessero combinato qualche disastro. Una volta, dopo un’ora e mezza che leggevo lo stesso testo per un annuncio 

Coop e oramai non vedevo più quello che leggevo, non mi sono accorto di un errore su di un impaginato. Riadattando il testo, l’esecutivista lo aveva pasticciato e aveva dovuto riscrivere la parola «perché». Solo che lo aveva fatto con l’accento sbagliato. Aveva scritto: «perchè». Quell’unico errore, su forse 50 o più annunci identici tutti corretti, mi sfuggì proprio. 

Il vicedirettore creativo mi chiamò in ufficio senza dirmi niente. Mi diede un foglio e una penna e mi chiese di scrivere la parola perché. La scrissi giusta. «Se la sai scrivere – mi domandò – perché non la sai leggere?» e mi fece vedere l’annuncio con l’errore, che purtroppo era già andato in stampa. Per me quell’evento ebbe una portata drammatica. Per qualche tempo pensai di essermi giocato per sempre la possibilità di essere assunto. E per un po’ di giorni gli altri creativi continuarono a rassicurarmi sul fatto che un errore può capitare a tutti. Ma il solo fatto che si sentissero in dovere di rassicurarmi, ingigantiva ancora di più la portata emotiva di quell’evento: significava che in quel mondo un accento era davvero fondamentale. 

Oggi il feed di LinkedIn mi ha mostrato l’ennesimo post dell’ennesimo tizio che offre consigli gratuiti sul marketing, per alimentare il suo brand personale. Nella cover del post campeggiava un «perché» gigantesco, scritto con l’accento sbagliato. Il testo esterno, quello che presentava il post, era di una sola riga. E anche in quell’unica riga riusciva a esserci un errore: «sì» scritto senza accento. Di errori così credo che ognuno di noi possa trovarne una trentina in meno di un’ora, solo scandagliando i feed di Facebook, Linkedin e Instagram. E non parlo esclusivamente di profili personali, ma anche di testate giornalistiche e altri progetti editoriali. 

Questa storia non ha nessuna morale. Non sono qui per rimpiangere i bei tempi andati, né per fare il grammar nazi (non lo sono mai stato e non è la mia posizione). È solo una fotografia di un paesaggio in cui sono cambiate molte variabili: la velocità di creazione e fruizione è triplicata, l’accesso al mercato della comunicazione è enormemente più largo, la durata dei contenuti è diminuita e con essa l’attenzione che si mette nello scrivere e nel pubblicare. E anche la lingua tende a cambiare. Credo che tra una decina di anni «sì», si scriverà senza accento. Perché la lingua tende a trasformarsi in base al modo in cui viene usata. È più probabile, dal mio punto di vista, che tra dieci anni useremo tutti il «sì» senza accento che la schwa, perché nelle evoluzioni linguistiche di solito quello che nasce dal basso prevale su quello che si tende a imporre dall’alto. Ripeto: non sono qui per fare il vecchio custode che pretende una forma impeccabile nel testo. Forse, però, rifiatare ogni tanto e mettere gli eventi in prospettiva ci farebbe bene. Penso che arriverà un momento in cui sarà proprio necessario riconfrontarci e chiederci qualche perché: cosa è accaduto realmente, nelle vene della nostra quotidianità, se una manciata di anni fa rischiavi il licenziamento per un accento grave e oggi rischi di farti dare del vecchio boomer grammar nazi se osi far notare a un sedicente guru lo stesso errore? Ma forse nessuno se lo chiederà mai, quel perché. E se anche lo facesse, userebbe l’accento sbagliato.