AIDS: 30 anni di comunicazione pubblicitaria

di Federico Unnia

Stop Aids. I linguaggi della pubblicità contro l’Aids in Italia e nel mondo” di Emanuele Gabardi  edito da FrancoAngeli

Un libro fondamentale per capire se la comunicazione pubblicitaria ha funzionato nel far crescere la conoscenza e la consapevolezza sui comportamenti a rischio di diffondere su scala mondiale l’infezione da Hiv.

L’ambizioso progetto porta la firma di Emanuele Gabardi, Insegna Pubblicità e strategie di comunicazione d’impresa all’Università di Bergamo e Teorie e tecniche della pubblicità all’Università di Torino.

Da questo libro Spot and Web promuove un articolato giro di tavolo virtuale, ospitando alcune interviste a protagonisti del mondo dell’adv.

Iniziamo con l’Autore

Come è nata l’idea di questo lavoro?

Emanuele Gabardi
Emanuele Gabardi

Occupandomi di pubblicità, ieri in agenzia e oggi in università, la comunicazione sociale, con le sue particolari forme espressive, fa parte dei temi di mio interesse.

Nonostante che alle campagne sociali venga solitamente concessa una maggiore libertà creativa, la quantità di pubblicazioni dedicate è molto bassa. Esistono degli ottimi manuali, ma i libri dedicati all’analisi dei messaggi o alle case history sono molto pochi. Sei anni fa avevo pubblicato, come curatore, un libro di casi: Social Advertising. Campagne pubblicitarie per un mondo migliore (Franco Angeli), con i contributi di sette professionisti della comunicazione che avevano più volte realizzato campagne sociali. Successivamente, essendo interessato a pubblicare un volume monografico sulla pubblicità, tra i tanti temi possibili mi è quasi parso naturale affrontare un argomento legato al sociale.

La scelta di un volume dedicato all’Aids non è stata casuale: tra i diversi problemi affrontati dalla pubblicità sociale a partire dalla seconda metà degli anni ’90, questo è, con ogni probabilità, quello che ha visto nascere il maggior numero di campagne. Non si tratta solo di quantità, ma anche della varietà espressiva che ha prodotto in diversi paesi delle campagne molto interessanti anche per il livello creativo.

Quali le maggiori difficoltà che ha  incontrato?

Posso dire che senza il web questo libro non sarebbe mai nato. Così come YouTube è stato fondamentale per la ricerca degli spot, altrettanto lo è stato Google, che mi ha permesso di rintracciare, oltre a molte immagini, anche i siti delle varie associazioni che si occupano della lotta all’Aids, oltre alle agenzie che se ne sono occupate.

È stato un lavoro certosino, anche perché talvolta, presso la stessa agenzia che aveva prodotto una campagna, i creativi che l’avevano ideata non erano più presenti e nessuno era in grado di rintracciare i loro annunci. Per fortuna esistono Facebook e Linkedin, grazie ai quali ho potuto contattarli e ricevere quello che mi serviva. Ho trovato quasi sempre persone gentili che hanno messo a mia disposizione i loro lavori. Questa ricerca si è resa necessaria perché gli annunci pubblicitari che si possono scaricare dal web nella larga maggioranza dei casi sono in bassa risoluzione, cosa che non avrebbe consentito una riproduzione ottimale sul libro, come invece è avvenuta.

Sia all’estero che in Italia ho riscontrato generalmente un’ampia disponibilità. Dove invece ho trovato un muro insormontabile è stato presso il ministero della Salute. Già in altre occasioni mi ero rivolto al direttore della comunicazione senza mai ottenere risposta. Anche questa volta ho parlato con impiegati molto gentili, c’è stato anche uno di loro che affermava di aver fatto una ricerca per fornirmi le risposte che cercavo, ma senza l’autorizzazione del direttore non poteva rispondermi. E si trattava di domande banali, come sapere in quali anni si era svolta una determinata campagna. Anche rivolgermi direttamente alla segreteria del ministro Lorenzin si è dimostrato infruttuoso (ma questo era abbondantemente prevedibile). Alcuni mesi prima della consegna del testo, ho visto che c’era un nuovo direttore della comunicazione. Mi sono rivolto a lui (anzi a lei) direttamente da un mio indirizzo d’ateneo, considerando che la richiesta avrebbe ottenuto maggior attenzione. Poi, dato il prolungato silenzio, ho scritto una mail, ricordando quanto avvenuto in precedenza. La reazione è stata rapidissima: mi è stato chiesto il mio numero telefonico per potermi parlare. Sto ancora aspettando la telefonata.

Un altro motivo di difficoltà, comunque inferiore a quanto appena esposto, è stata la scelta delle campagne da analizzare. Delle migliaia che sono state prodotte dal 1986 a oggi, ne ho trovate 526 e, considerando che ogni campagna è mediamente composta da tre o quattro annunci, non è stato un lavoro veloce.

stop-aidsQual è stato il merito e, se vogliamo, il demerito delle campagne di adv di sensibilizzazione sull’aids?

Il merito principale è stato quello di informare, talvolta anche con maggior precisione rispetto a quanto fatto dai media. Ricordiamoci dei deliri di coloro che parlavano di “peste del secolo”, ponendo le basi per l’emarginazione o addirittura la demonizzazione dei malati. In questo senso la campagna di Pubblicità Progresso del 1997, uscita un anno prima di quella del governo, è stata sicuramente positiva, perché ha affrontato questo problema, cosa quasi sempre assente nei messaggi del ministero.

La pubblicità contro l’Aids deve affrontare questo duplice problema: mettere in guardia contro i pericoli derivanti dai rapporti sessuali non protetti (quindi “invadendo” una sfera molto personale) e, contemporaneamente, ricordare che i malati non vanno discriminati. Da qui la difficoltà tra lo scegliere messaggi improntati al fear arousing appeal, in grado di farsi notare e ricordare più facilmente per il loro impatto drammatico, o preferire forme più soft.

Questo dubbio è emerso sin dalle prime campagne, sia in Italia che all’estero. Resta famoso, per la sua durezza, lo spot australiano del 1987, con la morte che gioca a bowling con gli umani al posto dei birilli. Uno spot per molti versi angosciante, che avrà sicuramente aiutato le persone a prendere seriamente in considerazione la malattia, ma che ha probabilmente creato la paura verso il malato di Aids.

Quindi, se c’è un demerito nelle campagne pubblicitarie contro l’Aids, è quello di non combattere abbastanza contro i pregiudizi.

Le regole della pubblicità e della morale sono state un vincolo?

Non è tanto la morale corrente che ha creato impedimenti tali da fornire dei messaggi distorti o talmente vaghi da essere inefficaci, quanto quella imposta dall’alto. Di questo ha molto sofferto il nostro paese, perché tutti sappiamo quale sia l’unico mezzo per impedire il passaggio del virus (come di altre malattie), ma talvolta non se ne è parlato, peccando di un eccesso di falso perbenismo. Inoltre, l’avversione della religione cattolica nei confronti dei metodi contro la fecondazione, e quindi contro il preservativo, ha creato molti danni. Questo perché alcuni partiti politici hanno l’abitudine di considerarsi portatori dei valori cristiani, anche quando non lo sono affatto. E così in Italia si è creata la curiosa situazione per cui se al governo c’era il centrosinistra si parlava di preservativo, mentre col centrodestra questa parola spariva. Il risultato è stato quello di avere campagne confuse e spesso inutili. A questo proposito devo aggiungere che le campagne ministeriali contro l’Aids, ad esclusione delle prime, sono state, nel migliore dei casi, mediocri. Il livello medio è così basso (come del resto succede per altre campagne promosse dal ministero della Salute) che possiamo considerarle le peggiori (almeno tra le 526 esaminate).

Oggi l’infezione è tutt’altro che debellata. Che fare per riaccendere l’attenzione?

Una campagna una tantum non è sufficiente, ma neppure limitarsi alla sola comunicazione pubblicitaria. Se l’Aids non torna a far parte dell’agenda dei media non c’è molto che si possa fare. Oltre alla prevenzione, al massimo rispetto per chi ha contratto la malattia, oltre che alla necessità di investire nella ricerca e nell’aiuto ai paesi nei quali l’Aids rappresenta ancora una pandemia, c’è l’esigenza, nel caso anche del più piccolo dubbio, di fare un test. In questo senso il sistema sanitario non è particolarmente d’aiuto: invece di sollecitare le persone a farlo, i medici tendono a chiedere spiegazioni a chi lo voglia fare, mettendo i pazienti in imbarazzo, cosa che crea inevitabilmente degli impedimenti. Perfino ritirare i risultati può rappresentare un problema, perché va fatto esclusivamente di persona, impedendo di dare la delega.

Ogni anno in Italia si registrano 4.000 nuovi casi conclamati di Aids. Quanti potrebbero essere quelli non dichiarati? Quante possono essere le persone che hanno contratto il virus Hiv e non lo sanno? Per porre rimedio suggerirei di prendere esempio da quanto fa la Regione Lombardia, sollecitando ogni due anni le persone dopo i 50 anni a fare un test contro il tumore al colon e la mammografia per le donne. In questo caso il test andrebbe fatto a partire dall’adolescenza, perché i più esposti sono proprio i giovani, che di Aids non sentono mai parlare.

I social non ci sono sempre stati. Oggi che ruolo possono svolgere?

I social servono anche per non sentirsi soli. In questo senso vedo la loro utilità soprattutto per i malati, come pure per i portatori sani del virus. Condividere le loro esperienze può aiutare ad affrontare le loro paure con maggiore serenità.

 

Pino Rozzi – President & CEO GREYUNITED | Famously Effective since 1917

Pino Rozzi
Pino Rozzi

Che giudizio dai della creatività di questi decenni sul tema dell’Aids?

“La prima sensazione è quella di archeologia pubblicitaria. Sono campagne che denotano una distanza che supera di gran lunga la logica temporale. Rivederle oggi, devo ammetterlo, un po’ mi disorienta. Non posso non giudicarle senza il filtro dell’alone viola la campagna che più di ogni altra ho trattenuto, per sintesi visiva e impatto verbale (Aids. Se lo conosci lo eviti). Le altre, principalmente quelle ministeriali, sono invece inutilmente prudenti”.

Cosa ha funzionato e su quali tasti si sarebbe potuto insistere maggiormente?

Funziona sempre la sintesi. Personalmente non credo al valore didattico, specie se il verbale diventa verboso, della comunicazione pubblicitaria. Convince più il Cliente che il consumatore. La leva principale da azionare avrebbe dovuto essere quella di far scattare il desiderio di informarsi.

Ti sei mai occupato di campagne sull’aids?

Per molte volte mi sono occupato di campagne sociali ma non sull’Aids direttamente.

La cultura e la morale cattolica hanno condizionato la creatività in Italia?

Nel bene e nel male la cultura cattolica ha pesantemente influenzato la comunicazione di massa. Nel male perché ha zavorrato le pulsioni irrazionali della creatività. Nel bene perché ha scatenato le pulsioni irrazionali della creatività.

I social che ruolo hanno oggi nella sensibilizzazione ed educazione?

I social per loro stessa definizione sono virali. Ed è proprio per questo che, se usati in modo non appropriato, possono diventare infestanti, creando sfaccettature pericolose alla verità. Mentre il valore degli influencer, che siano i nuovi youtubers o star di vecchia data, è indiscutibile.

Massimo Tavella – Fondatore Fondatore di Tavella Studio di Avvocati 

Massimo Tavella
Massimo Tavella

Quali problematiche si sono poste in tema di conformità alle regole pubblicitarie con le campagne adv sull’aids?

Più che iniziative istituzionali di sensibilizzazione, in Italia sono state oggetto di contenzioso delle campagne pubblicitarie legate ad un notissimo marchio di abbigliamento che, nel corso del tempo, ha incentrato la comunicazione su varie tematiche sociali, compreso l’AIDS.

Mi riferisco alle  due pronunce del Giurì aventi ad oggetto  messaggi incentrati rispettivamente  sull’ immagine del letto di morte di un  giovane ammalato di Aids (Pron. 25/1992) e di un tatuaggio sul braccio di una persona, recante la scritta  “Hiv-Positive” (Pron. 161/1993). Entrambe tali campagne sono state ritenute in contrasto con l’art. 1 CAP in quanto  la scelta di un tema sufficientemente delicato e cioè tale da provocare profonda risonanza a livello psicologico e sociale necessiterebbe l’assunzione da parte dell’inserzionista di un “grande senso di responsabilità”  (Pron. 177/1991). A tale proposito il Giurì ha negato che il linguaggio corretto sia quello di “un trattamento estremizzato, a tinte forti” del tema, che invece di concorrere alla formazione di una maggior consapevolezza, crei invece soltanto profondo turbamento nel pubblico. Sempre secondo il Giurì, il linguaggio pubblicitario adottato, invece di assolvere ad una  funzione sociale, di promuovere alti valori etici, aprire innovativi punti di vista, nuove prospettive culturali in ordine al flagello dell’Aids,  svolgeva una funzione meramente  pubblicitaria, finalizzata a trarre  il massimo dell’ attenzione del pubblico sulla marca, grazia alla capacità suggestiva delle immagini

L’Italia si è discostata su tali valutazioni di conformità rispetto ad altri paesi pubblicitariamente più avanzati (penso ad Uk, Germania e Francia?)

L’approccio al tema varia considerevolmente da paese a paese, ma quello italiano può considerarsi senz’altro particolarmente severo. All’opposto può segnalarsi il caso della Svizzera dove l’Ufficio federale della sanità pubblica ha lanciato nel 2011 la campagna “Love Life”, aspramente criticata per il linguaggio esplicito, raffigurante corpi nudi e atti sessuali.  Il Tribunale amministrativo federale, chiamato ad esprimersi sul ricorso presentato da ragazzi e genitori contro il rifiuto dell’Ufficio federale della sanità pubblica di bloccarla, ha difeso la campagna sul presupposto che il senso delle immagini che figurano sui manifesti potesse essere spiegato ai bambini dai genitori. L’approccio svizzero pare ispirato alla necessità di non confondere il problema della salute con quello della morale, che per converso l’autodisciplina italiana assume espressamente come criterio al fine di valutare la liceità della pubblicità (cfr. art. 10 secondo cui “La comunicazione commerciale non deve offendere le convinzioni morali”).

E’ stata sufficiente la previsione normativa del’art. 46 Cap o sarebbe occorso di più per permettere a queste comunicazioni di essere più efficaci?    

L’art. 46 ha avuto il merito di sgombrare il campo dal tentativo di sottrarsi al potere di controllo dell’autodisciplina sul presupposto che comunicazioni a carattere sociale non rientrassero nel concetto di pubblicità.

La clausola generale prevista dall’art. 1 ha invece arginato – ponendo i limiti ricordati sopra – ad iniziative di comunicazione d’impresa incentrate sul tema sociale dell’AIDS.

In generale, penso che l’ambito autodisciplinare sia  perfetto, da tutti i punti di vista, per affrontare anche questo genere di problematiche.

Sono state efficaci a tuo giudizio queste campagne?

Le statistiche mostrano che vi sia ancora scarsa informazione presso il pubblico sulle modalità di trasmissione del virus. Tale dato lascia intendere che le iniziative poste fino ad ora in essere non siano state sufficientemente efficaci. Ciò tuttavia  potrebbe essere dipeso anche da investimenti media non sufficienti oppure non adeguatamente “mirati”.

Alberto De Martini – A.D. Red Cell, docente IULM

Alberto De Martini
Alberto De Martini

Ti sei mai occupato negli anni di campagne di sensibilizzazione sull’ads?
No, anche se ricordo che all’inizio, quando insorse il problema, partecipai alla gara governativa che sfociò nella famosa campagna delle persone contornate di viola. Mi pare di Armando Testa.

A oltre trent’anni dalla scoperta dell’infezione cosa ha funzionato e cosa no nelle campagne di adv fatte in Italia e nel mondo?

È una domanda a cui credo sia impossibile rispondere in modo oggettivo. La domanda giusta credo sia: le campagne d’informazione (incluse quelle pubblicitarie) hanno contribuito al contenimento dell’epidemia? La risposta credo che sia sì, per il semplice motivo che esistono solo tre modi per evitare il contagio: l’astinenza, la fortuna o un comportamento razionale basato su una corretta informazione.

Le regole autodisciplinari ed etiche, hanno condizionato la potenzialità espressiva della comunicazione?

Se autodisciplina ed etica sconfinano nel bigottismo, sì. Su certi argomenti bisogna andare dritti: niente allusioni, eufemismi, giri di parole. L’unico argomento valido è la paura. Negli ultimi giorni, due accaniti fumatori mi hanno comunicato di avere smesso dopo aver visto i polmoni neri del cadavere di un fumatore alla mostra Real Bodies. Tutti e due hanno buttato via il pacchetto nei cestini dei locali che ospitano l’evento.

Oggi, in una situazione simile, i social permetterebbero di essere più efficaci o finirebbero per fare molta confusione e disinformazione?

I social sono uno strumento formidabile. E come tutti i mezzi non sono, in sé, né buoni né cattivi: dipende da come vengono usati. Nel caso dell’AIDS credo vadano usati, come a volte è stato fatto, per dare la parola a chi ha contratto il virus a causa di rapporti non protetti. Nessuna testimonianza è efficace come quella di chi ha già sbagliato e darebbe tutto ciò che ha per poter tornare indietro. Insomma, per mettere paura bisogna utilizzare un negative approach, senza dimenticarsi mai di aggiungere una ricetta positiva: un modo per salvarsi. E sappiamo tutti qual è, ancora oggi e finché non esisterà un vaccino: il preservativo.

C’è una campagna o uno slogan che avresti voluto proporre per sensibilizzare sulla lotta alla prevenzione dell’aids?

Di AIDS non si muore più. Ma è una vita del cazzo.

Alberto Contri – Presidente Pubblicità Progresso

Alberto Contri
Alberto Contri

Come nacque la sensibilità e l’impegno del mondo della pubblicità sul tema della lotta all’aids?

Ancora una volta Pubblicità Progresso si è attivata a causa del silenzio istituzionale. Mentre i casi di Aids aumentavano nel nostro Paese, il Ministero della Sanità si dibatteva tra mille dubbi e incertezze nella scelta dell’agenzia che, attraverso una gara indetta nel maggio 1987, avrebbe dovuto realizzare la prima campagna di informazione che arrivò solo un anno dopo. La mancanza di informazione finì per scatenare forme di panico e di discriminazione tra la popolazione. In questo contesto Pubblicità Progresso si mosse rapidamente e diffuse a partire dal giugno 1987 la prima campagna italiana sul tema. Si preferì usare toni rassicuranti e puntare sul sentimento di solidarietà affermando che “i rapporti umani non trasmettono il virus”.

Conciliare rispetto della dignità e dei valori della persona con la necessità di far conoscere come si trasmette l’infezione che sfide e mediazioni ha richiesto?

La campagna partì tra mille problemi di censura. In origine vennero realizzati 7 spot e altrettanti annunci stampa che illustravano le situazioni in cui il rischio di contagio era maggiore: sieropositività (“chi è colpito non ha colpa”), uso di eroina (“non farti fregare, butta la siringa”), gravidanze a rischio (“un bambino prende tutto dalla sua mamma”) fino alla prevenzione (“Fate l’amore proteggendovi. Farete la guerra all’Aids”). Mentre per stampa, affissioni e cinema non ci furono problemi, le reti televisive censurarono i soggetti che contenevano la parola “preservativo”. Si scatenò sulla stampa una battaglia tra pubblicitari, istituzioni,  opinionisti e comunicatori che ebbe il merito di attirare l’attenzione del pubblico che indirettamente prese coscienza del problema. Fu soprattutto un decisivo primo passo verso il superamento di un perbenismo difficile da sconfiggere, di chiusure ideologiche e vecchi tabù.

Ci sono state campagne pensate ma mai realizzate per motivi di conformità alle norme del codice?

No mai. Anche perché fa parte del CdA di Pubblicità Progresso il direttore generale dello IAP che “sorveglia” dall’interno che non si commettano errori.

Delle campagne che sono ricordate nel libro, quali sono a tuo giudizio le due migliori e le due peggiori?

Sinceramente non posso dire migliori o peggiori, tutte sono state fatte a seconda di un preciso contesto sociale. Trovo geniale la campagna contro il fumo: “Il fumo avvelena anche te. Digli di smettere”.

E sono particolarmente affezionato a due campagne della mia gestione: la prima, appena nominato per la prima volta presidente, a favore dell’alfabetizzazione informatica e dell’inglese (il contadino che sviluppa il suo business on-line perché sa usare il pc e scrivere in inglese). La seconda sul tema della disabilità, per la quale convinsi Lucio Dalla a scrivere una canzone ad hoc, “Per sempre presente”. Fu anche la prima campagna sociale crossmediale.

Innanzi ad una nuova malaugurata emergenza come è stata l’aids, cosa si dovrebbe fare di diverso e di nuovo anche grazie ai social?

Bisognerebbe investire tempo e denaro in una comunicazione che tenga conto delle abitudini dei ragazzi sui social, riuscendo a coinvolgerli con una narrazione che li riguardi da vicino, facendoli partecipare attivamente, invece che limitarsi a raccogliere dei like. E’ possibile, ma occorre provare tante chiavi diverse, ironìa in primis. All’estero ci sono riusciti. Nella mia rubrica Spot&Social sul sito di Pubblicità Progresso si può vedere come hanno fatto.

Massimo Guastini – copywriter & partner  cOOkies comunicazione

Massimo Guastini
Massimo Guastini

Che giudizio si è fatto di queste campagne negli anni?
Ne ricordo una sola e solo perché fu sostenuta da una pianificazione media importante, mancata poi alle campagne successive. La realizzò l’agenzia Armando Testa alla fine degli anni Ottanta. Uno spot televisivo più ansiogeno che persuasivo, segnato da indicazioni moralistiche, poco adatte a fare breccia nel cuore dei giovani.
Le persone lo ricordano genericamente per “l’alone violetto” che nella storia andava a caratterizzare le persone che contraevano il virus. Aveva però un pregio: nominava la parola preservativo. Parola poco amata dai cattolici di potere.
Cosa ha funzionato e su quali tasti si sarebbe potuto insistere di più?
Alle campagne italiane sul tema è sempre mancato l’aspetto fondamentale: essere interessanti per i giovani. Sembravano campagne pensate più per intercettare l’approvazione di un elettorato maturo e un po’ bigotto che per catturare l’attenzione dei giovani. Considero ottimi lavori “Aides Graffiti”

e Aids “sugar baby love”

Ti sei mai occupato di campagne sull’aids?
Nel 2011, come Presidente dell’Art Directors Club Italiano, decisi di sostenere l’associazione Sieropositivo. Alla campagna lavorarono TBWA (agenzia) e The Family Kids (casa di produzione). Il progetto fu reso possibile grazie all’adesione del regista Luca Lucini e venne poi premiato anche dal Festival di Cannes 2012. Nessuna singola campagna, per quanto bella e premiata, può però risolvere l’assenza di informazioni su questo tema dacché l’Aids è diventata una malattia cronica (costosamente) curabile.
La cultura cattolica ha condizionato, e se sì in che modo, la creatività in Italia?
Sei anni fa, non trenta, alla vigilia della giornata mondiale contro l’Aids, i conduttori RAI e le redazioni dei programmi ricevettero una mail in cui il Ministero della Salute (Ministro Renato Balduzzi cercatelo su wiki) ribadiva di non nominare esplicitamente il profilattico. La trasmissione dell’Aids avviene prevalentemente per via eterosessuale. Perché il Ministero della Salute si rivelò contrario all’unico vero strumento di prevenzione possibile? (la castità non è uno strumento).
Se oggi, malauguratamente, scoppiasse una nuova emergenza infettiva, i social che ruolo avrebbero nella sensibilizzazione ed educazione?

È evidente che i Social giocherebbero un ruolo importante.
Ma il tema in Italia resta sempre lo stesso: operazioni di comunicazione così delicate non devono essere più condotte in maniera dilettantesca come la campagna contro la droga firmata da Carlo Giovanardi nel 2011. O come il recente e sciagurato #fertility day della Ministra Beatrice Lorenzin. Nemmeno l’hashtag poteva salvarlo.