“L’immaginazione ci salverà”. Parola di Pasquale Barbella

Intervista al pubblicitario in libreria con “L’austerità creativa nella comunicazione di oggi”

di Giovanni Santaniello

Pugliese di Ruvo di Puglia. Classe 1941. Milanese d’adozione da quando, nel 1967, cominciò a lavorare nel campo pubblicitario. Copywriter, direttore creativo e coordinatore creativo di network internazionali. Pasquale Barbella è un’autorità nel campo della comunicazione. E ha da poco dato alle stampe per le edizioni Skira “L’austerità creativa nella comunicazione di oggi”.

Nel titolo colpisce ‘Austerità creativa’. Non si tratta di una contraddizione in termini?

“Sì, certo, è un ossimoro. L’austerità fa venire in mente sacrifici e rinunce, mentre la creatività è positiva e solare. Ma la contraddizione è solo apparente. La tesi che si vuole esprimere è che, nei periodi di austerità, ci vuole più immaginazione (più creatività) nel risolvere i problemi”.

barbella
Pasquale Barbella

Più facile a dirsi…

“Ricordo un altro periodo di austerità, negli anni Settanta del secolo scorso. Gli anni di piombo. Allora l’austerità aveva un nome inglese, austerity: era più chic. Ma la realtà era di una tetraggine assoluta. Per dirne una: in città si spegnevano i lampioni prima del solito e si chiudevano i ristoranti. I primi per risparmiare energia elettrica, i secondi perché il buio faceva paura e la gente non usciva più volentieri di casa. Grazie agli sviluppi creativi della tecnologia, ora, potremo sempre di più risparmiare corrente ricorrendo a fonti alternative di energia, riducendo in tal modo anche l’inquinamento ambientale…”

Lo stesso principio vale anche per la comunicazione?

“Sì. Abbiamo bisogno di renderla più fresca, più leggera, più autentica, più vicina alle persone. Adesso è troppo infarcita di stereotipi. Continua a rivolgersi ai “consumatori” anziché a lei, a me, ai nostri amici e parenti. Noi non siamo solo consumatori, non siamo solo compratori di merce. Aspiriamo sì alla felicità, o almeno alla serenità, ma stiamo imparando che la qualità della nostra vita non può dipendere soltanto dai consumi. Anche perché molti di quei consumi non possiamo più permetterceli. La pubblicità, quindi, deve rivolgersi a noi con contenuti più sobri, più adeguati ai tempi, ma con uno stile che non sia necessariamente depresso, severo, da coprifuoco. Ecco: il libro contiene diversi esempi di pubblicità brillante ma in sintonia col momento”.

Costituiscono la ricetta che propone per uscire da questo momento di difficoltà?

“Dal 2008 l’economia traballa dappertutto e nell’area mediterranea in particolare. Il settore della comunicazione è stato tra i primi a pagarne le conseguenze. Non tanto o non solo per la contrazione degli investimenti (che anzi sono in costante ascesa per quanto riguarda internet), ma per il progressivo deprezzamento del lavoro di consulenza (le agenzie) da parte dei committenti (le aziende). I consulenti vengono pagati di meno e tra i concorrenti c’è da tempo una vertiginosa quanto masochistica corsa al ribasso. Risultati: conti in rosso, licenziamenti, dequalificazione della creatività. La ricetta è una sola: rilanciare il lavoro di qualità e dimostrarne il valore. Deve essere il merito a fare la differenza e a giustificare il costo della prestazione. Gli investitori devono imparare a capire che Tizio è più bravo di Caio, e che per questo merita di essere pagato meglio di Caio. Se questo non succede spontaneamente, tocca a Tizio elaborare strategie convincenti per attrarre l’attenzione e l’interesse della committenza. Purtroppo questo semplice ragionamento, facilissimo da capire quando si parla di frutta e verdura, risulta di difficile comprensione nel mercato pubblicitario. Sono stati commessi, specialmente da parte delle grandi strutture, errori che sarà arduo risanare in tempi brevi. Ho molta fiducia invece nelle imprese di consulenza medio-piccole, agili, giovani, dotate di entusiasmo e competenza soprattutto nel digitale. Il presente e il futuro del settore dipendono sostanzialmente da loro”.

Nel suo ultimo post sul corriere.it ha scritto che “il male della pubblicità è che qualsiasi idiota può farla.” È un j’accuse che sottolinea proprio il problema di selezione di classe dirigente anche nel settore della comunicazione?

“No, è una semplice constatazione. Chiunque abbia soldi da investire può comprare e occupare spazi pubblicitari sui media, anche se è un analfabeta. Se non possiede un’adeguata preparazione, e non si avvale di specialisti di indubbia capacità, contribuisce a incrementare uno dei fenomeni più sgradevoli della nostra epoca: l’inquinamento cognitivo, ovvero la proliferazione di messaggi incongrui, balordi, rumorosi, rozzi, grossolani, volgari, insensati”.

Qual è, invece, la pubblicità che serve al nostro Paese?

“Una pubblicità sincera, umanistica, civile, che sappia sorprenderti, farti ragionare, strapparti un sorriso o addirittura, se è il caso, commuoverti. Per farla bisogna partire dal mondo reale o almeno da un mondo verosimile. Non può essere campata per aria come troppo spesso accade. Non deve continuare a rifugiarsi negli stereotipi più antiquati, più logori, più risaputi. Non deve aver paura di mostrare che l’Italia è più vera e complessa di un mulino bianco, di un paradiso di santi che bevono caffè, di una bella automobile che ti cambia la vita. Ha mai visto una badante, un disoccupato, un immigrato nella nostra pubblicità?”

No, a pensarci mai.

“Eppure basta guardarsi intorno per incontrarne una moltitudine. Fanno la spesa anche loro, magari modesta, ma per le aziende non esistono. E quando una più coraggiosa delle altre si azzarda a esporre un manifesto con una coppia gay, spunta il politico ipocrita di turno per gridare allo scandalo e fare propaganda di partito. Se vogliamo un Paese migliore, dobbiamo migliorare anche la sua pubblicità.