La comunicazione di plastica-Ma i Pubblicitari devono essere più consulenti o consolanti?

di Francesco Cataldo Verrina

In giro si respira un’aria pesante, nel senso che la crisi sta stritolando molte piccole aziende, le quali, nella sconfinata provincia italiana, rappresentano (o forse rappresentavano) una fetta di pane sicuro per molti, anche per i pubblicitari.
Basta varcare l’uscio di una qualsivoglia impresa e portarsi in prossimità degli uffici amministrativi, luogo dove noi pubblicitari veniamo solitamente ricevuti, per avvertire a fior di pelle che la tensione si taglia con il coltello, che l’atmosfera è ottenebrata da mille recondite paure e che i sorrisi delle segretarie sono appena accennati, forse di pura circostanza.
Le dolenti note arrivano quando ti trovi al cospetto del “dominus” dell’azienda nel suo “ufficione” con tanto di scrivania in noce nazionale, dove sono disseminati inutili e costosi gadgets, spesso di cattivo gusto.
Si proprio in quel luogo, un tempo regno di euforia e di racconti su traguardi e successi ottenuti che le note dolenti vengono eseguite su un lamentoso spartito a metà strada tra le paturnie di un cantore errante ed un pianto greco con singhiozzo a ritmo di sirtaki.
Dire “greco”, oggigiorno, significa dire molto, ma per fortuna siamo ancora in Italia. Eppure quell’incontro che avrebbe dovuto essere un “briefing” per mettere a fuoco strategie, pianificare nuove campagne ed iniziative comunicazionali a vario titolo, si trasforma in dispersivo sfogo in formato monologo del “dominus” sulle angherie dell’agenzia dell’entrate, sugli studi di settore sempre più penalizzanti, sui crediti non riscossi o sulle banche sempre meno disponibili ad ascoltare e sostenere chi del lavoro ne ha fatto una questione di vita, creando benessere per sé e per gli altri.
Il pubblicitario è lì, silente e dubbioso, vorrebbe dire qualcosa, ma non ci riesce. Soprattutto vorrebbe far sapere al mondo che anche quelle che si occupano di comunicazione commerciale sono aziende. Poco importa se piccole o grandi, ma che anch’esse hanno i loro conti da saldare, l’IVA da versare, qualche stipendio da pagare e via discorrendo.
Lo scenario diventa quasi surreale, e mentre quell’ufficio si trasforma per incanto nello studio di uno psicologo, soprattutto quell’incontro in cui il pubblicitario aveva riposto mille speranze diviene una sorta di seduta terapeutica a tutto vantaggio del committente.
Il titolare dell’impresa parla, racconta, aggroviglia le parole in maniera sconnessa, mentre il povero comunicatore non può comunicare, deve solo ascoltare senza alcuna via di fuga. L’unica via di salvezza potrebbe essere il saper trovare e dire le parole giuste al momento giusto.
Qualora doveste trovarsi in una simile situazione, non provate mai ad assecondare troppo il vostro interlocutore, penserà che lo stiate prendendo in giro, come si fa con un malato grave, soprattutto non osate contraddirlo, potrebbe esservi fatale.
Chiunque occupa un posto dirigenziale o di comando, perfino il responsabile dei vespasiani di un comune della Brianza non ama essere contraddetto. Guai a compatirlo, la compassione si usa solo per i deboli e i perdenti. Non vi sognate, neppure lontanamente, di dire che anche voi subite delle ingiustizie, tirando fuori la vecchia questione della commissione di agenzia che nessuno vi riconosce più, perché vi ritrovereste impigliati in un ginepraio da cui nessuno riuscirebbe più a cavarvi fuori.
La via di fuga per antonomasia da tale fastidiosa e spesso imbarazzante situazione, dovrà essere sempre la creatività, altrimenti che pubblicitari, che comunicatori, che “uomini-rana dello spirito” sareste! Una sortita improvvisa, magari approfittando di una pausa fisiologica del discorso, potrebbe liberarvi dall’impasse. Una rapida deviazione, rispetto al contenuto di quella discussione monocanale, monotematica e nonocratica, potrebbe sortire una risolutiva forzatura psicologica. Per intenderci, sarebbe come assestare un sonoro schiaffo ad una persona isterica. Per l’amor del cielo, che non vi salti in mente di picchiare il vostro committente-benefattore, in tal caso dovreste dimenticarvi l’affidamento del budget e la lettera d’incarico per sempre. Al contrario, distraetelo e individuate subito qualcosa con cui solleticare il suo narcisismo.
Ecco un espediente, che a titolo personale, ho avuto modo di sperimentare per almeno tre volte e con altrettanto successo. Generalmente nell’ufficio del capo di un’impresa o del “dominus”, oltre agli inutili e succitati gadgets, ci sono delle foto in bell’evidenza. Individuatene una, possibilmente con soggetti di famiglia, alzatevi, e come rapiti da una forza sovrannaturale, portatevi nelle sue vicinanze, quindi esclamate: “Fantastica questa foto, che colori, che gioco di luci, un’inquadratura da manuale, deve averla scattata un professionista!”.
Se sarete fortunati, la risposta dovrebbe essere più o meno questa, o simile: “Che professionista, l’ho scattata io, così senza neppure pensarci, con una macchinetta da tre soldi!”.
A questo punto replicate rincarando la dose: ”Non ci posso credere, sembra che sia stato colto un attimo fuggente, una sorta di fotofinish della felicità!”
Le metafore ed i giochi di parole risultano sempre seducenti. Personalmente, per ben due volte su tre, mi è stato risposto in questa maniera: “Come hai detto scusa, fotofinish della felicità? Eccezionale!”
E mentre gongolavo di gioia, il committente mi incalzava magnificando le mie capacità creative: “Beh, ma che te lo dico a fare, se ti ho scelto, è perché ti considero il più grande copy-writer del mondo. Senti, per la campagna delle villette a schiera, quelle a pannelli prefrabbricati e con impianto fotovoltaico in dotazione, non potremmo inventarci qualcosa per poter usare come claim proprio quello che hai detto prima, cioè il fotofinish della felicità!”
Potreste pensare che mi sia inventato tale storiella per esigenze narrative, ma vi garantisco che è tutto vero. In ogni caso, in quelle circostanze a me è andata bene: da consolante, sono tornato ad essere consulente riuscendo perfino a sbarcare il lunario. Non sempre però è così.
Esiste un vizio di forma nella procedura, nel senso che il pubblicitario, sia pure “ob torto collo”, al cospetto di un qualsivoglia committente si trova (o è costretto per necessità a trovarsi) sempre in una posizione d’inferiorità. Ciò accade perfino quando sei stato chiamato, non solo quando ti sei proposto, almeno in provincia e nelle piccole realtà locali. E l’Italia, ad eccezione di Milano e zone limitrofe, dal punto di vista pubblicitario è la più estesa provincia d’Europa.
Sembrerebbe che nel DNA del pubblicitario ci sia quel “gene consolatorio” che tanto piace agli imprenditori di ogni risma. E’ difficile che un imprenditore pretenda da un qualsiasi altro tipo di “fornitore di beni e servizi” le stesse attenzioni che invece si attende dagli uomini di comunicazione.
Per loro noi siamo artisti, psicologi, tuttologi, creativi. Sovente si diventa pure amici e per alcune faccende confidenti, si va giocare a golf o cavallo insieme, ci raccontano dei problemi del loro cane o del nuovo idromassaggio che ha dei getti d’acqua troppo violenti. Per intenderci, per loro noi pubblicitari siamo di tutto e di più, ma non ci considerano imprenditori, al massimo dei “prenditori”, soprattutto al nostro impegno non riconosceranno mai una collocazione ed una valenza spazio-temporale.
L’investimento pubblicitario, in provincia, per molte aziende costituisce una sorta di male necessario, dunque il pubblicitario viene visto come una specie di “guaritore” più che un professionista della comunicazione. Meglio avercelo in comodato d’uso, come una sorta di medico di base da chiamare alle prime avvisaglie o ai primi sintomi del raffreddore.
E’ pur vero che il pubblicitario, da tempo, ha accettato di sostenere una funzione (e una condizione) di “counselor”, più che di “consultant”, ma è altrettanto vero che se andiamo all’origine delle parole tutto si riduce ad una mera “consolazione”.
Ad esempio, “counseling deriva dal verbo inglese “to counsel”, che rimanda al verbo latino consulo-ĕre, traducibile in “consolare” o “confortare”, quindi siamo punto e a capo.
Il verbo italiano “consultare” fa riferimento a competenze superiori per necessità contingenti. Peccato che le necessità contingenti o impellenti non siano mai quelle dei pubblicitari!